Dopo Pirandello e Molière, Shakespeare.
Si conclude con Il mercante di Venezia la trilogia di “rilettura” di alcuni grandi classici del teatro che ha visto impegnata la compagnia in questi ultimi anni.
Come “Il berretto a sonagli” e “Anfitrione”, ancora una tragicommedia in cui si fondono farsa ed elegia e dove si scontrano due universi paralleli le cui identità appaiono mutevoli. In questo Shakespeare si contrappongono un mondo arcaico e favolistico, sprofondato in un clima da romanzo cavalleresco e simboleggiato da un luogo mitico e irreale come Belmonte e il nuovo mondo, pratico e affaristico, fondato sul dominio del denaro e rappresentato da Venezia, città per eccellenza dei mercanti.
A Venezia fa capo l’intreccio del sanguinario contratto tra l’usuraio ebreo Shylock, figura memorabile alimentata da una sete inestinguibile di vendetta, intesa come unico possibile strumento di riscatto per gli affronti subiti in ragione della sua “diversità” ed il mercante Antonio, uomo moderno animato da nobili sentimenti, eppure afflitto da una inesauribile malinconia esistenziale.
Belmonte, per contro, è il luogo sospeso in cui, in un clima da Mille e una notte, si sviluppa la vicenda di Porzia, maga-regina a metà tra una crudele Turandot e una novella Ginevra. Anello di congiunzione tra questi due universi, destinati ad incontrarsi e a deflagare, è Bassanio, ambiguo gentiluomo squattrinato, che è causa dell’infido contratto che lega la carne di Antonio all’odio di Shylock e al tempo stesso sposo “predestinato” di Porzia . . .
La vicenda procede tra illusioni e beffe, tradimenti e inganni, burla e tragedia, in un contesto di mutevolezza continua e inafferrabile, che fa “saltare” tutte le certezze e le
rassicuranti letture manichee della realtà; una realtà fragile e precaria, come è la stessa condizione umana che invoca, nonostante tutto, tolleranza e perdono.