FONTAMARA
Regia di ANTONIO SILVAGNI
Con ANGIE CABRERA, STEFANIA EVANDRO, ALBERTO SANTUCCI, RITA SCOGNAMIGLIO, GIACOMO VALLOZZA

FONTAMARA

dal romanzo di IGNAZIO SILONE

adattamento e drammaturgia FRANCESCO NICCOLINI

una produzione TEATRO STABILE D’ABRUZZO – TEATRO LANCIAVICCHIO
con la collaborazione del CENTRO STUDI IGNAZIO SILONE
COMUNE DI PESCINA, COMUNE DI AVEZZANO

con ANGIE CABRERA, STEFANIA EVANDRO, ALBERTO SANTUCCI, RITA SCOGNAMIGLIO, GIACOMO VALLOZZA

musiche originali GIUSEPPE MORGANTE

regia ANTONIO SILVAGNI

Voci. E Fantasmi. Talvolta fantasmi di fantasmi.

Cinque attori: danno voce a un mondo, a un paese, ai suoi abitanti e pure ai loro carnefici. Raccontano quasi fosse unopera sinfonica a più voci la storia di Fontamara, dei Fontamaresi, di Berardo Viola e di Elvira. Le voci dei protagonisti si accavallano con quelle dei personaggi minori: ogni attore deve acrobaticamente passare da unidentità all’altra. Giuvà, Matalè, il loro figlio, Marietta, Scarpone, e poi il generale Baldissera, Papasisto, Venerdì Santo, Ponzio Pilato, Betta Limona, limpresario, il cavalier Pelino, don Baldissera, le mogli, i carabinieri, un prete venduto, un canonico disperatoun mondo si affolla sul palcoscenico attraverso una partitura ferrea, unalternanza di presenze e testimonianze. Perché di testimoni si sta parlando: quasi fossimo di fronte a un giudice, o forse al Giudizio Universale, sono tutti chiamati a ricostruire quei giorni osceni pieni di vergogna violenza e disumano accanimento sui più indifesi.

Mano a mano che lintreccio di sviluppa, prendono corpo le storie dei Fontamaresi e degli abusi dei poteri forti ai loro danni. Più l’ombra incombente del fascismo che si sposa con gli interessi dei latifondisti. E insieme, la storia dei due protagonisti assenti, Berardo ed Elvira: in mezzo a questo concertato di voci, solo le loro mancano. Berardo ed Elvira esistono solo nel ricordo degli altri. Eppure, qui, sono tutti fantasmi. A parte un unico sopravvissuto: il figlio di Giuvà e Matalè. Solo lui si è salvato. Da lui parte il racconto: se fossimo davvero di fronte a un tribunale, lui sarebbe il supertestimone, quello da proteggere, quello da cui dipende la riuscita o meno del processo. Lui evoca tutti i fantasmi, e i fantasmi si presentano e a loro volta i fantasmi ne generano altri e altri e altri ancora. Fino alla fine. Fino alla strage. Fino al genocidio. Perché di genocidio si tratta.

-Torno a Fontamara 35 anni dopo il mio primo viaggio. – Scrive Francesco Niccolini. – Allora avevo 15 anni: la forza disperata dei tre testimoni protagonisti del capolavoro di Silone non mi ha mai abbandonato. Quello stile piano, colmo di dignità e al tempo stesso di umiliazione, lironia della scrittura e la ferocia dei potenti. I privilegi dei ricchi, la loro ingordigia, la presa in giro spietata di un mondo destinato al genocidio. Perché un genocidio è stato. Solo che allora non avevo gli strumenti per capirlo. Quando ventanni fa ho avuto la fortuna di lavorare con Marco Paolini e Gabriele Vacis al Racconto del Vajont, uno dei capitoli più duri da studiare e al tempo stesso esempio di coraggio e forza morale, è stata la lettura dellarringa dellaccusa, scritta dallavvocato Sandro Canestrini, ora novantaquattrenne: ne fece un piccolo libro, un autentico pamphlet, che intitolò Vajont: genocidio di poveri. Ecco, tornando a Fontamara a distanza di tanti anni, e con molti chilometri e incontri belli e tragici sulle spalle, penso che questo romanzo capolavoro sia un altro capitolo fondamentale per chi ha deciso di raccontare quel genocidio. Ora, insieme agli attori cafoni come si definiscono loro stessi del Teatro di Lanciavicchio e a Tonino Silvagni, provo a portare quelle voci e quei fantasmi sul palcoscenico.-

Lo spettacolo è vincitore del 2° premio del “Premio Museo Cervi-Teatro per la Memoria 2019″ con la seguente motivazione:  “Lungo un tragitto di drammaturgica linearità, prende corpo e polifonia di voci l’epica popolaresca dei «cafoni» dellarretrata Marsica abruzzese, ritratti dalla penna di Ignazio Silone durante gli anni dispotici del fascismo. La regia compone una cerimonia ieratica che evoca un quartetto nerovestito di testimoni, sempre seduti davanti a una vuota schiera di sedie e accanto a uno dei figli sopravvissuti a quella terra martoriata da sfruttatori collusi con il potere fascista. Convincono le sporcature dialettali inferte dai quattro attori al testo e la loro coesione, che crea maggiore empatia verso gli spettatori.(…)”

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