ANFITRIONE
Regia di Franco Ricordi
Con Pino Micol, Tiziana Bagatella, Maximilian Nisi, Giancarlo Ratti, Elena Fanucci,Franco Ricordi, Pietro Becattini

ANFITRIONE
di Heinrich von Kleist
attraverso PLAUTO E MOLIÈRE
versione in lingua italiana
di Riccardo Reim

regia
Franco Ricordi

con
Pino Micol Giove
Tiziana Bagatella Alcmena
Maximilian Nisi Anfitrione
Giancarlo Ratti Sosia
Elena Fanucci Caride
Franco Ricordi Mercurio
Pietro Becattini Comandante

Sarà presentato a L’Aquila nel Teatro Comunale dal 24 al 28 febbraio 2005 il nuovo spettacolo del Teatro Stabile d’Abruzzo "ANFITRIONE" di Heinrich von Kleist con Pino Micol, Tiziana Bagatella, Maximilian Nisi, Giancarlo Ratti, Franco Ricordi, Elena Fanucci, regia del direttore del TSA Franco Ricordi e scene e costumi di Domenico Franchi con la consulenza di Ezio Frigerio e Franca Squarciapino.
Anfitrione, definita da Thomas Mann la più bella commedia del mondo ritrova in questo allestimento, nella superba versione italiana di Riccardo Reim, tutta la sonorità e il ritmo degli endecasillabi inframmezzati dal verso libero con un gioco di regia che insiste sul profondo dubbio tragicomico sulla nostra stessa identità.
"Ritrovo questo splendido testo. – dice Franco Ricordi – Nel 1991, quando lo allestii per la prima volta (recitavo anche il ruolo del titolo) si era da poco conclusa la prima guerra contro l’Iraq. Oggi si è da poco conclusa la seconda guerra contro l’Iraq, con la deposizione di Saddam Hussein. In entrambi i casi lo sconvolgimento del mondo dopo la guerra è grande, sicuramente degno dei dubbi e delle incertezze di Anfitrione e di Sosia. Qui risiede la straordinaria attualità del teatro di Heinrich von Kleist, un teatro che si può senz’altro definire “ di guerra “; e la guerra è infatti il leitmotiv di tutte le principali opere kleistiane (dal “Principe di Homburg” alla “Battaglia di Arminio”, da “Pentesilea” a “Roberto il Guiscardo” fino al grande giustiziere – terrorista Michael Kohlhaas)."
Ed ancora partendo dall’idea di regia di una umanità che dopo la guerra non è più la stessa, con uomini che perdono anche le proprie coordinate spaziali e temporali in scena vedremo un mito sedimentato nella drammaturgia di tutti i tempi, Anfitrione è sì quello di Plauto, ma è anche il personaggio di Molière a cui Kleist si avvicinò traendone "una creazione originale, là dove per originale non si intenda, scioccamente, un creare e inventare dal nulla, ma l’accendersi dello spirito nella materia".
Di grande impatto è il Giove interpretato da Pino Micol, attore che non ha certo bisogno di presentazioni, un giovane grande talento per Anfitrione: Maximilian Nisi (che già per il TSA interpretò il Cristo nella "Rappresentazione della Passione"). Leggero ed assurdo si presenterà Giancarlo Ratti nei panni di Sosia mentre Mercurio, regista della vicenda, è interpretato dallo stesso regista dello spettacolo Franco Ricordi. Alcmena avrà il bel volto di Tiziana Bagatella che già si è provata in altri ruoli da protagonista con lo Stabile d’Abruzzo (era Giocasta nell’ultima edizione dell’"Edipo re"). Completano il cast Elena Fanucci, Caride e Pietro Becattini che sarà il Comandante. Le musiche originali sono state composte dal maestro Luciano Di Giandomenico.
Nota del traduttore
Nel 1803, durante un soggiorno in Svizzera, Kleist strinse amicizia con lo scrittore, storico e romanziere Heinrich Zschokke, che stava allora preparando un’edizione tedesca delle commedie di Molière. Al giovane Kleist venne affidata la traduzione di Anfitrione, ma questi apportò tali e tante modifiche al testo originale che alla fine il senso della vicenda risultò profondamente alterato nella sostanza, al punto da poterne ricavare un’opera autonoma, che lui stesso amò, sì, definire “alla maniera di Molière”, ma in realtà avente in comune con il galante soggetto francese soltanto una serie di tratti esteriori. La fondamentale quarta scena del secondo atto, ad esempio, in Molière manca del tutto; i motivi e la psicologia dei personaggi – Alcmena in primis, ma anche Giove e lo stesso Anfitrione – sono interamente di Kleist, che porta la materia dell’antica favola plautina a una ben maggiore e sofisticata complessità, in un crudele gioco di smarrimenti notturni, angosciosi interrogativi e sbigottite consapevolezze che neppure la più ‘chiarificatrice’ luce meridiana riuscirà mai a dissipare.
Thomas Mann ne parlò come della commedia “più arguta e graziosa, più ricca di spirito, più profonda e bella di tutto il teatro universale” (resa, bisogna aggiungere, in un linguaggio duttile e vivo, in versi di straordinaria fluidità che qui si è cercato di rendere – gettando un’occhiata anche a Plauto e a Molière – con un gioco di endecasillabi inframmezzati, a seconda delle esigenze del ritmo scenico, con versi liberi), sottolineando che si trattava per certo di “una creazione originale, là dove per originale non si intenda, scioccamente, un creare e inventare dal nulla, ma l’accendersi dello spirito nella materia”. Questo risulta tanto più vero se si considera che il bruciante senso dei conflitti morali e umani sempre tanto vivo in Kleist – e il conseguente, continuo confronto tra ‘Erlebnis’ esistenziale ed ‘Erlebnis’ poetico – gli impedisce di attingere in pieno alla sfera tradizionalmente serena e distaccata del giocoso: qui, Alcmena (tornando all’esempio più vistoso) è di sicuro figlia di Euripide – il più sottilmente tragico dei tragici greci – ma non, al tempo stesso (come nota giustamente Ervino Pocar) una semplice espressione dell’antichità. E’ proprio questa sottile forma di contaminatio adottata da Kleist che non poteva piacere a Goethe, il quale in una lettera del 28 agosto 1807 scriveva a Müller che “è quanto mai difficile trovare la parola giusta”, osservando quindi come, a suo parere, “l’antico e il moderno si dividano per questa via più di quanto si uniscano”. In realtà le prime tre scene, occupate da Mercurio e da Sosia, sono un capolavoro di teatro surreale degno in tutto e per tutto del miglior Plauto, sia per il linguaggio scoppiettante che le anima sia per l’ “assurdo” della situazione in cui si sviluppano; e il comportamento della protagonista – forse la creatura più pura e insieme più appassionata di Kleist, ben lontana da quella “confusione dei sensi” che vi volle scorgere Goethe – di fronte al marito e agli dèi sarebbe del tutto inconcepibile se non fosse confortato da quel tanto di spirito religioso che l’autore le concede, spirito che, in ultima analisi, tende alla solitudine dell’io. Il sospiro con cui la commedia si chiude rivela che Alcmena non potrà mai più tornare a essere quello che era, vale a dire una semplice, felice sposa terrena. Nel suo lamentoso “ach!” intriso di rassegnazione e rimpianto – sul quale, non a caso, l’autore si congeda dalla platea – è espressa tutta la fondamentale incapacità di comprendere e dominare l’enigmatica assurdità dell’esistenza.

Riccardo Reim