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ANFITRIONE
Regia di Franco Ricordi
Con Pino Micol, Maximiliam Nisi, Tiziana Bagatella, Franco Ricordi,Giancarlo Ratti, Elena Fanucci, Fabio Bussotti, Pietro Becattini.

nota di regia
“ANFITRIONE, dopo la guerra”
Ritrovo questo splendido testo. Nel 1991, quando lo allestii per la prima volta (recitavo anche il ruolo del titolo) si era da poco conclusa la prima guerra contro l’Iraq. Oggi si è da poco conclusa la seconda guerra contro l’Iraq, con la deposizione di Saddam Hussein. In entrambi i casi lo sconvolgimento del mondo dopo la guerra è grande, sicuramente degno dei dubbi e delle incertezze di Anfitrione e di Sosia. Qui risiede la straordinaria attualità del teatro di Heinrich von Kleist, un teatro che si può senz’altro definire “ di guerra “; e la guerra è infatti il leitmotiv di tutte le principali opere kleistiane (dal “Principe di Homburg” alla “Battaglia di Arminio”, da “Pentesilea” a “Roberto il Guiscardo” fino al grande giustiziere – terrorista Michael Koohlas). E tuttavia è proprio nella riscrittura del mito più reinventato del teatro occidentale, appunto “Anfitrione”, che Kleist ci lascia nel più profondo dubbio tragicomico sulla nostra stessa identità. Dopo la guerra nessuno è più se stesso, dopo la guerra l’uomo perde anche le proprie coordinate spaziali e temporali.
Il mito di Anfitrione nasce in Grecia (siamo sempre a Tebe, la stessa città di Edipo) anche se la prima geniale tragicommedia – il termine viene coniato proprio lì- la dobbiamo a Plauto, seppure incompleta. Da allora in poi il mito di Anfitrione è stato il più rappresentato: si è sedimentato nella drammaturgia di tutti i tempi fino alla realizzazione di circa 40 edizioni, da Molière a Giraudoux; ma soltanto in Kleist il personaggio di Giove assume un rilievo ed una grandezza degne del suo nome, tanto da giustificare l’entusiasmo di Thomas Mann.

Nota del traduttore
Nel 1803, durante un soggiorno in Svizzera, Kleist strinse amicizia con lo scrittore, storico e romanziere Heinrich Zschokke, che stava allora preparando un’edizione tedesca delle commedie di Molière. Al giovane Kleist venne affidata la traduzione di Anfitrione, ma questi apportò tali e tante modifiche al testo originale che alla fine il senso della vicenda risultò profondamente alterato nella sostanza, al punto da poterne ricavare un’opera autonoma, che lui stesso amò, sì, definire “alla maniera di Molière”, ma in realtà avente in comune con il galante soggetto francese soltanto una serie di tratti esteriori. La fondamentale quarta scena del secondo atto, ad esempio, in Molière manca del tutto; i motivi e la psicologia dei personaggi – Alcmena in primis, ma anche Giove e lo stesso Anfitrione – sono interamente di Kleist, che porta la materia dell’antica favola plautina a una ben maggiore e sofisticata complessità, in un crudele gioco di smarrimenti notturni, angosciosi interrogativi e sbigottite consapevolezze che neppure la più ‘chiarificatrice’ luce meridiana riuscirà mai a dissipare.
Thomas Mann ne parlò come della commedia “più arguta e graziosa, più ricca di spirito, più profonda e bella di tutto il teatro universale” (resa, bisogna aggiungere, in un linguaggio duttile e vivo, in versi di straordinaria fluidità che qui si è cercato di rendere – gettando un’occhiata anche a Plauto e a Molière – con un gioco di endecasillabi inframmezzati, a seconda delle esigenze del ritmo scenico, con versi liberi), sottolineando che si trattava per certo di “una creazione originale, là dove per originale non si intenda, scioccamente, un creare e inventare dal nulla, ma l’accendersi dello spirito nella materia”. Questo risulta tanto più vero se si considera che il bruciante senso dei conflitti morali e umani sempre tanto vivo in Kleist – e il conseguente, continuo confronto tra ‘Erlebnis’ esistenziale ed ‘Erlebnis’ poetico – gli impedisce di attingere in pieno alla sfera tradizionalmente serena e distaccata del giocoso: qui, Alcmena (tornando all’esempio più vistoso) è di sicuro figlia di Euripide – il più sottilmente tragico dei tragici greci – ma non, al tempo stesso (come nota giustamente Ervino Pocar) una semplice espressione dell’antichità. E’ proprio questa sottile forma di contaminatio adottata da Kleist che non poteva piacere a Goethe, il quale in una lettera del 28 agosto 1807 scriveva a Müller che “è quanto mai difficile trovare la parola giusta”, osservando quindi come, a suo parere, “l’antico e il moderno si dividano per questa via più di quanto si uniscano”. In realtà le prime tre scene, occupate da Mercurio e da Sosia, sono un capolavoro di teatro surreale degno in tutto e per tutto del miglior Plauto, sia per il linguaggio scoppiettante che le anima sia per l’ “assurdo” della situazione in cui si sviluppano; e il comportamento della protagonista – forse la creatura più pura e insieme più appassionata di Kleist, ben lontana da quella “confusione dei sensi” che vi volle scorgere Goethe – di fronte al marito e agli dèi sarebbe del tutto inconcepibile se non fosse confortato da quel tanto di spirito religioso che l’autore le concede, spirito che, in ultima analisi, tende alla solitudine dell’io. Il sospiro con cui la commedia si chiude rivela che Alcmena non potrà mai più tornare a essere quello che era, vale a dire una semplice, felice sposa terrena. Nel suo lamentoso “ach!” intriso di rassegnazione e rimpianto – sul quale, non a caso, l’autore si congeda dalla platea – è espressa tutta la fondamentale incapacità di comprendere e dominare l’enigmatica assurdità dell’esistenza.

Riccardo Reim